1° Giugno 2016
Problemi, crisi e prospettive europee.
Siamo trepidanti davanti a passaggi di importanza primaria
Il collasso geopolitico delle regioni che gravitano attorno al Mediterraneo, nel quadro che in precedenza abbiamo descritto in << L’Europa scodinzola? L’Europa annaspa? Perché non denuncia le responsabilità più dirette? >> ha superato i livelli di guardia e le condizioni d’instabilità possono essere definite sistemiche, visto che alcuni degli interlocutori privilegiati fra quanti dovrebbero concorrere a creare valide e salde premesse a pro di una nuova stabilità in realtà continuano a operare come forze che debordano ampiamente dagli accordi di massima raggiunti nei fori internazionali e mirano anzi a invalidare la loro attuazione e realizzazione . In particolare, visto che il legittimo governo della Siria continua a essere oggetto di una sanguinosa aggressione internazionale la cui strategia mira a perpetuare il generalizzato crollo politico di Damasco e di Baghdad e a realizzare intese sul campo definibili a dir poco promiscue e perfino tenebrose.
Se dal Vicino Oriente ci spostiamo lungo l’arco orientale-nordorientale, i conflitti circoscritti e i confronti sono molto più contenuti di intensità ma non di estensione e di implicazioni relative agli equilibri euroasiatici e di riflesso planetari, visto il diretto prolungamento delle palpabili tensioni lungo tutto l’arco subpolare e polare e nel fin nel cuore del continente asiatico. Le attuali preoccupazioni sono dettate da fondati gravi timori, timori che lasciano presagire ulteriori innalzamenti dei livelli delle sfide e possibili shock per la diplomazia della comprensione e del dialogo.
Con il tornare ad acuirsi del problema degli sbarchi dei profughi e dei migranti in Italia, si riconferma l’assillo dell’Europa per il Mediterraneo inteso come frontiera aperta senza freno e controllo alcuno. In riferimento alla stabilizzazione della Libia, fattore cruciale per potere controllare, contenere, bloccare questi flussi migratori, il processo è ancora all’inizio e non si devono nutrire facile illusioni, anche per la perseverante azione debordante di sfrontate operazioni sottocoperta di avvoltoi europei e vicino orientali sia con ambizioni europeistiche sia con ambizioni di rinnovato panarabismo e panislamismo.
Non di meno, con l’avvicinarsi della data del referendum inglese sulla Brexit, ossia sulla paventata uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, si riconferma che l’UE sta vivendo questi mesi nella scomodissima posizione simile a quella di chi stesse imprigionato nel collo di una bottiglia. A dir poco.
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Le crisi interne che stanno dilaniando l’Unione Europea sono da imputare non poco a questo quadro generale. Diciamo subito: non si tratta più di confronti polemici tipici delle crisi di crescita, ma di crisi oggettiva dovuta alla scarsa credibilità politica di molti partner, quali partner di meno anziano ingresso nel contesto comunitario (quindi quelli dell’Europa orientale); interlocutori in cui prevale un’ irrazionale oltre che egoistica risposta davanti ai problemi migratori sorti già da tempo ma repentinamente esplosi con l’arrivo di notevoli masse di profughi siriani. E dei partner scandinavi e anglosassoni.
In realtà, i governi e le opposizioni di questi Paesi hanno affrontato il problema nella più completa incapacità e perfino sconsideratezza politica e hanno dimostrato di essere privi degli strumenti culturali minimali atti a poterli guidare nella comprensione e nella valutazione del problema. Ad essi si aggiungono le variegate e spesso neonate opposizioni che nei Paesi di maggiore peso e anzianità si oppongono con non minore rozzezza e generalizzazione al problema rappresentato dai profughi e dai migranti.
In riferimento ai migranti, essi non dimostrano di capire con quale grave miopia hanno agito i loro governi quantomeno nell’ultimo quindicennio, avendo dimostrato una completa sottovalutazione o non valutazione del problema, il quale ha subito una crescita esponenziale ininterrotta. Essi neppure si domandano di sapere chi, all’interno dei loro Paesi, ha favorito per anni la violazione delle leggi dell’immigrazione clandestina e la nascita di nuove norme totalmente permissive. In presenza di eventi incontrollabili e di così elevate proporzioni, ci si è accorti troppo tardi delle fumose e pericolose clausole dei trattati internazionali firmati che de facto abbattono il controllo delle frontiere. Una vera e propria sciagura, giacché anche il Paese e il sistema sociale più permissivi e più solidi economicamente non possono sottrarsi dalla responsabilità di individuare delle soglie oltre le quali l’assetto socio-economico viene a subire dei contraccolpi che ricadono innanzitutto sulle fasce più deboli e meno abbienti della loro popolazione. Contraccolpi che producono perciò l’aggravamento del disagio e della povertà di strati della popolazione e la nascita di movimenti reattivi a carattere xenofobo. Su questo piano, non siamo a conoscenza dell’adozione di misure socioeconomiche interne da parte dei governi interessati, e in particolare dell’Italia, atte a recuperare soltanto dalle emorragie delle spese parassitarie, dalla sclerosi funzionale burocratica e dai ceti pubblici abbienti le risorse per aiutare ceti medi, fasce deboli e il rilancio di una politica demografica.
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In merito alle proposte di allocazione urgente di risorse finanziarie nei Paesi d’origine dei processi migratori, la posizione assunta di recente dall’Italia costituisce un valido ma difficile tentativo di rimetter la palla al centro del campo per affrontare davvero con razionalità e senza demagogia siffatta gravissima problematica. La Germania ha già condiviso l’obiettivo ma non il metodo: bisogna arrivare alla condivisione completa, a cui si dovranno quanto prima associare apertamente Francia e Regno Unito (nel caso di no alla Brexit).
E’ dunque da chiedere: cosa hanno fatto in questi ultimi due decenni i partner europei, soprattutto quelli con maggiore peso politico e in modo particolare quelli che hanno avuto imperi e possedimenti coloniali? E’ anche doveroso chiedere ai partner più recenti se e come intendono fare parte dell’Unione Europea: considerandola soltanto come fonte di lauti e interminabili finanziamenti a fondo perduto e senza partecipare alla concreta formazioni di una cultura e di una coscienza civile e politica europea? Soltanto rivolgendo appelli di aiuto e di amicizia agli Stati Uniti?
Alcuni anni addietro, le maggiori Nazioni con in testa gli USA decisero di aiutare i popoli del Terzo e del Quarto mondo non più accreditando agli uffici dei loro governi le masse monetarie devolute (visto che lungo la filiera della distribuzione degli aiuti arrivava ai poveri molto meno del 20% delle somme versate), ma finanziando direttamente i progetti specifici validi da realizzare in loco. Quale è stato il risultato effettivo raggiunto sul campo da questa valida scelta operata? E, soprattutto, i finanziamenti hanno avuto attuazione e raggiunto quali e quanti obiettivi? E le risorse globali assegnate a questi capitoli sono aumentate o hanno subito decrimenti? In che modo è altrimenti possibile creare istruzione, cultura, circoli virtuosi e lavori in queste regioni depresse e affamate e spesso sfruttate senza ritegno da un predone neo-neocapitalismo occidentale? Le salveremo finanziando ancora un debito senza fine che di tanto in tanto viene in parte cancellato? Provocando ulteriori implosioni e profughi e movimenti migratori?
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Davanti a questi problemi, non bisogna agire da sconsiderati o farsi condizionare e trascinare da sconsiderati. Bisogna avere il coraggio di individuare le cause e, individuate le cause, additare con coerenza e determinazione anche quello che non piacerebbe avere scoperto e che non piacerebbe dire. Se non ci si libera da condizionamenti e da ruoli di subalternità supinamente accettati, non solo non si risolvono i problemi, ma essi subiscono crescite ipertrofiche.
Su tutto questo, basti pensare la pietosa scena che abbiamo visto durante il recente incontro di Obama con Cameron, Hollande, Merkel, Renzi in Europa e che abbiamo rivisto durante il G-7 in Giappone.
In verità, per quanto combattuta anche all’interno della Germania dagli esponenti di un populismo ottuso e inconcludente che si è manifestato pure all’interno della formazione di governo, Angela Merkel è l’unico leader europeo che ha dimostrato e dimostra di affrontare questo problema con la necessaria preparazione e serietà politica e con una saldezza di carattere e una preveggenza ammirevoli. Non sta a noi dare pagelle, ma sta nel nostro diritto rilevare e indicare nei modi il più possibile obiettivi l’adeguatezza della dimensione decisionale del potere politico o meno.
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L’impreparazione e la sconsideratezza politica all’interno dell’Unione Europea giova doppiamente alla politica estera degli USA. Sia perché fra le cause da additare vi è in primissimo piano l’ azione di pervertimento del quadro geopolitico realizzata dalle amministrazioni di Bush sen. e jr. e l’ incapacità di Obama di affrancarsi dal consolidato potere degli strateghi neocon. Sia perché in tutti i Paesi dell’Unione chi guida la protesta lo fa con una completa cecità e non ha capito e non capisce quali enormi responsabilità ricadono su chi ha tessuto le trame a Washington, a Londra e a Parigi, o non ardisce dirlo. Sia perché questa cieca e reazione facilita e giova ancor di più al perseguimento dei subdoli obiettivi che costoro hanno fino ad oggi realizzato. Autolesionismo inconcludente puro e semplice.
A proposito di autolesionismo, è bene ricordare che un’impennata autodistruttiva di non poco conto si ebbe e si ha e avrà ancora per anni con l’assurda decisione di diversi Paesi europei (Norvegia, Danimarca, Turchia e, come co-finanziatori, Regno Unito, Italia, Olanda) di adottare quale cacciabombardiere standard l’F35 statunitense. Fu ed è un micidiale colpo di maglio contro la ricerca tecnologica e l’industria aerospaziale europea che già aveva investito cifre colossali per progettare e produrre l’EFA Typhoon (Regno Unito, Germania, Italia, Spagna), il Rafale (Francia), il Gripen (Svezia). Il velivolo avrebbe dovuto essere adottato si e no solo per le esigenze della portaerei leggera italiana, visto che per la nuova portaerei inglese si poteva realizzare la versione navale dell’Eurofighter. Regno Unito, Italia e Olanda hanno versato cifre di finanziamento cospicue per vedersi esclusi del core della tecnologia elettronica, che per gli europei rimane segretata. Sei Paesi i cui governi e stati maggiori hanno agito in modo scopertamente ingiustificato contro gli interessi nazionali, sotto tutti gli aspetti.
Lo scenario della mancata realizzazione di obiettivi comuni a pro della sicurezza europea e della nascita dei primi gradini di una sua reale sovranità è ricco di situazioni consimili, come già avvenne nel caso dell’uscita del Regno Unito dal programma europeo delle fregate (in realtà cacciatorpediniere di squadra, o, con un termine italiano, caccia conduttori), che seguì per proprio conto, lasciando andare avanti solo francesi e italiani. La Germania prese una sua strada; la Spagna continuò a dipendere dagli USA e poi si associò alla Germania. E così via.
Il problema oggi si ripropone a proposito dei velivoli da ricognizione non pilotati, UAV. Abbiamo un proliferare di progetti e di stagnazioni politiche. Il caso più rilevante è quello relativo al progetto MALE su cui si erano accordate le industrie di punta francesi, tedesche e italiane e che era stato ufficialmente fatto proprio dai governi, con il relativo protocollo firmato dai tre ministri della difesa. Esso rivestiva carattere d’urgenza. A tre anni, siamo fermi. L’industria USA continua a vendere anche in questo delicato settore i suoi mezzi e il governo americano fa il bello e il cattivo tempo, mentre l’Europa continua a svolgere il ruolo di mero cliente. Il che sul piano politico e tecnologico significa esprimere soltanto subalternità di fatto, su tutta la linea.
Lo sciovinismo, qui palese espressione di superbia e arroganza, non paga. A che servono la difesa a giro d’orizzonte con la force de frappe e lo strumento della deterrenza inglese (con mezzi americani ) totalmente scollegati e avulsi dalla realtà europea? Qui siamo oltre il ridicolo.
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Il più pericoloso condizionamento allo sviluppo della sovranità europea oggi tuttavia proviene dal massiccio pressing che finanza industria e politica USA esercitano sull’Europa al fine di arrivare alla firma del Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti (TTIP). Esso ha trovato forti sponde in Europa, nell’ambito di precisi settori industriali, nutriti di egoistici interessi settoriali, cosa molto pericolosa. Non bastano le puntualizzazioni di Hollande. Bisogna fare quadrato contro l’oligopolio dei trust speculativi, specie contro quelli che operano nel settore agricolo, dell’alimentazione e della salute. I loro interessi collidono con quelli degli Stati, dei lavoratori e delle libertà fondamentali dei cittadini. La sfera dei diritti sarebbe solo merce alla mercé di questi potentati spregiudicati e spietati, come già ampiamente insegnano gli avvenimenti più recenti un po’ ovunque, ad iniziare proprio dalla sudditanza a cui sono stati ridotti i cittadini americani. Ricordiamoci che tutto questo ha già comportato per l’Europa lo scontro, passivamente subito, con la Russia e la sua emarginazione. Uno scacco incredibile, foriero di negative ricadute economiche e lavorative, oltre che amicali e strategiche. Ricordiamo inoltre che la Russia è Europa e che la Russia dovrà fare parte di questo ecumene, nella nostra convinta prospettiva.
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L’eventuale uscita inglese dall’Unione Europea porterebbe il Regno Unito in un cul de sac a dir poco. La politica interna sarebbe soggetta a contrasti insanabili, visto che una cospicua minoranza sarebbe sempre pro-europeista e visto che la maggioranza degli scozzesi ha votato per la non separazione da Londra nell’ambito di un’irrinunciabile appartenenza all’Unione Europea. Le utopie maniacali del dorato isolazionismo sorrette da una pseudocultura vetero ideologica che si appoggia sull’esistenza dello spettro del Commonwealth e sulla splendida pentapoli oceanica costituita da Regno Unito – Canada – Australia – Nuova Zelanda – domini minori ha il fiato corto: una pusillanime entità al completo servizio degli interessi incontrastati dell’oligopolio e della strategia della Casa Bianca. Men che domestici al loro sevizio. Niente altro.
Cameron ha messo sotto la giusta luce le grandi perdite a cui andrebbero incontro gli inglesi con l’uscita dall’Unione Europea. Ciò pero non è cosa esauriente e segue un percorso sbagliato. Oramai per il Regno Unito si tratta di affermare con parole chiare se vole far parte del dato fondativo dell’Europa, che è quello culturale. Il patrimonio condiviso di idee, valori, storie e infine interessi economici che deve costituisce la salda e indiscussa base delle prospettive di un futuro davvero comune quanto mai prossimo. Un futuro in cui si parli di generazioni europee e di Europa tout court.
Un fallo non meno grave commesso da Cameron è stato quello di avere fatto plateali passi indietro in merito alle urgenti decisioni da assumere per venire incontro alla tragedia umanitaria dei profughi e dei migranti che si sta abbattendo sull’Europa mediterranea. Si è ritrovato in buona compagnia con la compagine dei Paesi del Baltico e dell’Europa orientale, purtroppo.
Gli inglesi non possono incorrere nell’errore in cui sono caduti gli attuali governanti turchi, i quali hanno messo soprattutto in luce gli aspetti geo-politico-economici tralasciando di soffermarsi sui mattoni della vita: sui valori di cui si nutre (anche se male e con contraddizioni vistose) e si dovrà nutrire la grande Europa, l’Eufrasia.
Essi sono la condivisione dei valori della libertà di coscienza e delle libertà civili. I modelli politico-costituzionali con cui si intende realizzare questi obiettivi fondativi possono essere diversi, oltre ogni dogma tardo ottocentesco. L’importante è che la linfa vitale ci porti agli sviluppi tanto agognati, a pro delle future generazioni europee e dell’umanità. Quest’ultimo aspetto riguarda sia gli Stati dell’Europa orientale che l’Italia, vittima di un modello costituzionale non soltanto non adeguato quanto, soprattutto, mai adempiuto in riferimento ad articoli di importanza cruciale.