13 Giugno 2023
Sintesi dell’allocuzione di ringraziamento scritta e letta dal Prof. Pietro Petraroia in rappresentanza del Dr. Bernolf Eibl-Eibesfeldt (DE), figlio dell’illustre scienziato Irenäus Eibl-Eibesfeldt (AT), al quale è stato attribuito alla memoria il Premio Europeo Capo Circeo. Di questa allocuzione, esiste l’ascolto integrale nella videoregistrazione della cerimonia, che risulta fruibile in situ ai lettori, grazie al Senato della Repubblica.
Irenäus Eibl-Eibesfeldt, accanto al Nobel e Capo Circeo Konrad Lorenz, è una fra le più presitigose personalità del mondo scientifico internazionale che hanno contribuito in modo molto rilevante alla crescita delle conoscenze umane nell’ambito della ricerca e della comprensione dei comportamenti degli animali e degli uomini.
Irenäus Eibl-Eibesfeldt, a sinistra, con Konrad Lorenz
L’Etologia è oggi diventata, anche grazie a loro, una disciplina interconnessa con una molteplicità di altre discipline e un punto di riferimento fondamentale nella mappatura e plasmazione della cultura della contemporaneità ultima e della sua nuva facies. Disciplina di riferimento e di grande impatto nel contesto della profondissima trasformazione dei contenuti dei saperi in atto, grazie allo sviluppo delle metodiche di applicazione e utilizzazione degli strumenti scientifico-tecnologici negli ambiti psico-sociologici e comportamentali degli esseri viventi, in cui pure l’altra sciernza rivoluzionaria, la Genetica, ingaggia rinnovate battaglie di conquista conoscitiva in ciò che comprensivamente indichiamo come campi della filogenesi e dell’ontogenesi. Disciplina, l’Etologia, la cui divulgazione dei contenuti pure sul piano della formazione scolastica e culturale di base e di massa è diventato imperativo legislativo e civile improrogabile. Non di meno, desideriamo rilevare come essa stia dando e ancor più darà grande impulso all’esigenza della formazione prespecialistica e umanistica degli scienziati (a iniziare da biologi, veterinari, medici) nel contesto di una precisa e cosciente maturazione della comprensione dei contenuti biopsicologici della vita e dei loro aspetti, quale indispensabile premessa alla comprensione stessa e ulteriore dell’approccio teorico e sperimentale delle attività che siamo soliti definire scienze positive. Essa fornisce, infine, come la Genetica, un formidabile apporto alle molteplici diramazioni delle ricerche archeo-etno-antropologiche e storiche, neuropsicologiche e al problematizzante campo della riflessione filosofica.
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Rivolgo un grato saluto da parte di Bernolf Eibl-Eibesfeldt ai promotori e agli organizzatori di questo prestigioso Premio che ritiro in memoria di suo padre Irenäus. Un Premio, che promuove la pace e la collaborazione fra i popoli di tre continenti strettamente uniti geograficamente e antropologicamente, valorizzando le differenze e le diversità delle persone come una risorsa preziosa di sviluppo sostenibile e responsabile a disposizione dei governanti delle nazioni interessati con buona volontà a progetti per il bene comune.
Un saluto cordiale a tutti gli ospiti e autorità presenti, alla Biblioteca Casanatense, che in passato e ieri ha dato casa a questa iniziativa, e in particolare all’Alta sede istituzionale che oggi ci accoglie, il Senato della Repubblica Italiana e i suoi rappresentanti.
Personalmente sono soltanto un tramite per la consegna del premio alla memoria di Irenäus Eibl-Eibesfeldt, il cui contributo personale originale – nella sequela e come collaboratore di Konrad Lorenz – nella fondazione della disciplina di ricerca denominata ormai da decenni “etologia umana” è stato fondamentale.
Non c’è forse bisogno di ripercorrere nuovamente la sua carriera prestigiosa di studioso, ricercatore e docente, ma credo – d’accordo con suo figlio Bernolf che oggi non può essere qui fisicamente – che valga la pena leggere in questa occasione le pagine che concludono il suo libro “Etologia della guerra”. Infatti, esse sono per noi tutti, tutt’oggi, un monito e un segno di speranza, che ci sembra particolarmente coerente con l’ispirazione del Premio.
“In molte specie animali l’aggressione intraspecifica è ritualizzata, al punto che il danneggiamento dell’avversario viene comunque evitato. Questo vale, fondamentalmente, anche per l’aggressione tra uomini all’interno di uno stesso gruppo; nella nostra specie il comportamento aggressivo si fonda, in misura considerevole, su adattamenti filogenetici e viene altresì controllato efficacemente proprio grazie a questi ultimi. Sono dei segnali innati di sottomissione a impedire, ad esempio, che gli atti aggressivi tra membri dello stesso gruppo possano trascendere fino a livelli distruttivi. Il monito: «Non uccidere!» ci viene dettato, in certo qual modo proprio da un filtro di norme biologiche.
Di norma, l’aggressione tra diversi gruppi umani mira, in certo qual modo, all’annientamento dell’avversario. Questo è un risultato della pseudospeciazione culturale nel corso della quale i gruppi umani si allontanano gli uni dagli altri per lingua e costumi, e giungono a definire come uomini a pieno titolo solamente se stessi e ad attribuire viceversa agli altri consimili la qualifica di uomini senza piena dignità. Alla base di ciò vi sono il timore e il rifiuto degli estranei che si manifestano nell’uomo, come disposizione innata, sin dalla primissima infanzia; ma che i gruppi umani possano essere rigorosamente circoscritti lo si deve solamente al fatto che l’uomo reprime le proprie inclinazioni sociative, anch’esse innate. Di conseguenza la guerra si è sviluppata come meccanismo della competizione tra i gruppi (pseudospecie) per appropriarsi dello spazio e delle risorse. La tesi secondo cui la guerra si sarebbe evoluta soltanto in epoca neolitica con lo sviluppo dell’agricoltura e della coltivazione non regge a una disamina critica. Vi sono testimonianze, risalenti al Paleolitico, le quali comprovano che già allora si verificavano scontri armati. Inoltre la maggioranza delle popolazioni attuali che vivono di caccia e di raccolta sono provatamente territoriali, e combattono anche per il possesso dei territori di caccia e di raccolta.
La guerra è anzitutto un’azione distruttiva; eppure a partire da essa possono delinearsi, in un’evoluzione simile a quella che ha portato dal combattimento cruento al torneo ritualizzato, le forme di ritualizzazione culturale della guerra stessa: tali sono appunto le convenzioni volte a impedire un eccessivo spargimento di sangue. Questo evidentemente risulta vantaggioso dal punto di vista della selezione. Un’evoluzione in tal senso presuppone tuttavia che si possano espletare le funzioni della guerra — ad esempio la definizione di una contesa per la terra — anche mediante una guerra incruenta. Tuttavia, perché ciò accada, il vinto deve battere in ritirata: questa è, anche tra gli animali, la condizione necessaria per poter essere risparmiati. Non sempre però, nel caso dell’uomo, le vie di fuga sono accessibili; questo anche perché mancano gli spazi vuoti. In tal modo viene posto un limite all’automatismo di un’ulteriore umanizzazione della guerra. Esistono tuttavia altri preadattamenti che potrebbero promuovere un’evoluzione culturale verso la pace. Nel corso della sua pseudospeciazione culturale, infatti, l’uomo ha sovrapposto al filtro di norme biologiche che gli vietano di uccidere un filtro di norme culturali che gli impongono di uccidere.
Questo porta a un conflitto di norme che l’uomo vive come cattiva coscienza non appena percepisce, nel corso del confronto, che anche l’avversario è un suo simile. Dopo tutto, infatti, l’avversario esibisce gli stessi segnali che ordinariamente, nel corso dei normali rapporti all’interno del gruppo, svolgono una funzione di acquietamento ed evocano compassione. Molte osservazioni confortano questa ipotesi: ad esempio il fatto che spesso un guerriero che ha ucciso dei nemici debba sottoporsi a dei rituali di espiazione prima di essere reintegrato a pieno titolo nella società.
E proprio in tale contrasto tra la norma culturale e la norma biologica che affonda le sue radici l’universale desiderio di pace dell’uomo, espressione della sincera esigenza di riportare l’armonia tra filtro delle norme culturali e filtro delle norme biologiche. Così la coscienza continua a offrire motivo di speranza: ed è appunto su queste basi che un’evoluzione guidata dalla razionalità potrà condurci fino alla pace. Premessa ineludibile di tale evoluzione è la comprensione del fatto che la guerra assolve determinate funzioni, per le quali si devono trovare delle alternative incruente. Chi non vuole vedere questo e liquida la guerra come un fenomeno patologico, opera una pericolosa semplificazione, in quanto non perviene mai all’idea che volere la pace significa essere in grado di assolvere in altro modo le funzioni proprie della guerra. L’uomo, grazie alla sua struttura motivazionale, dovrebbe essere capace di una pacifica convivenza nella moderna società di massa. Per questo l’educazione alla pace deve essere in primo luogo un’educazione alla tolleranza intesa come disponibilità a comprendere”.
Mi sia consentito di concludere con una testimonianza personale.
Sono praticamente coetaneo di Bernolf Eibl-Eibesfeldt. Quando arrivai all’università di Roma nel 1972 per studiare storia dell’arte, come sua nonna, madre di Irenäus, il mio interrogativo era se vi fossero – e fino a che punto – delle strutture universali di “ricezione dell’opera d’arte nella coscienza”, per citare parole del mio maestro Cesare Brandi, che avevo cominciato a leggere negli anni del liceo. Egli aveva sviluppato su questo problema un pensiero che, partendo dallo schematismo trascendentale di Kant, aveva incontrato almeno indirettamente le “Ricerche logiche” di Husserl (forse per il tramite di Heidegger) e le elaborazioni berlinesi del giovane Sartre, pervenendo poi, attraverso il tema unificante del rapporto fra segno e immagine, all’impiego delle metodologie di analisi strutturale del linguaggio, sino a formulare conclusivamente la sua estetica sull’impronta delle teorie linguistiche di Hjelmslev.
Per questo decisi che il mio primo esame universitario, prima ancora di archeologia e storia dell’arte, fosse dedicato alla disciplina della psicolinguistica. E così conobbi le ricerche sui fondamenti biologici del linguaggio e anche l’approccio cognitivista di Noam Chomsky. È singolare che anche quelle ricerche – oggi, mi sembra, un po’ trascurate – conducessero alla conclusione che tutti gli esseri umani dispongono di modalità di elaborazione del pensiero e di relazione linguistica fondate su presupposti mentali e biologici comuni a tutti gli uomini; e alla successiva conclusione dell’inammissibilità della guerra. E di simile indirizzo mi apparvero le ricerche, a lungo dimenticate, di Marcel Jousse sull’antropologia del gesto e sulle culture orali dei nativi di diversi continenti, condotte nella prima metà del Novecento e di recente ripubblicate.
Ma ciò che caratterizza lo specifico apporto di Irenäus Eibl-Eibesfeldt – e forse il suo testamento morale – è l’avvertimento, etico e scientifico, di non sottovalutare superficialmente la realtà delle guerre, coltivando lucidamente la certezza che esse debbano e possano venire superate con una gestione dei conflitti in modo non sanguinoso nell’interesse generale, con soluzioni alternative alla reciproca soppressione fra esseri umani.
Mi sia consentito di esprimere in questa alta sede la convinzione profonda che proprio la coeducazione all’esperienza culturale – e in particolare artistica e linguistica – costituisca una via concreta alla costruzione di buone relazioni con sé stessi e con gli altri, diversi da sé, in armonia con la riformulazione recentissima dell’articolo 9 della Costituzione italiana:
“La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.
Tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni. La legge dello Stato disciplina i modi e le forme di tutela degli animali.”
Pietro Petraroia
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